Di maggio non voglio parlare.
Sarà l’unico mese di questo primo anno nella nuova casa che non avrà un racconto a lui dedicato. Maggio non se lo merita.
A maggio se n’è andata una persona molto importante per la mia vita; sapevo sarebbe successo, ne ero certa, sebbene tutti accanto a me sostenessero il contrario. E’ successo. Me lo aspettavo.
E invece no.
Questa perdita brucia ancora: sono ancora arrabbiata, faccio fatica a rassegnarmi. La vedo ancora uscire dal cancelletto di ferro battuto verde, qui a casa mia, sorridendomi. La sento ancora pronunciare quelle parole, le ultime che ci siamo dette.
Pertanto passerò subito a giugno, il primo mese d’estate, la prima estate nella casa nel bosco.
Non è stato un giugno allegro né spensierato, come si può ben immaginare, ma per fortuna è stato un giugno fresco, nella prima metà.
Ho cominciato a trascorrere molto tempo nel mio amato e tanto desiderato giardino: la mattina ho camminato a piedi nudi e fatto yoga sul prato davanti, quello a sud. C’era sempre un bel venticello fresco che scendeva dalla montagna; quando avevo da stirare, lo facevo in quel momento. Il resto della mattina lo trascorrevo a cucinare per tutti e due i pasti e a sistemare la casa. Da metà mattina poi mi sedevo nel giardino a nord, vicino alla fontana a ranocchia, a leggere e a scrivere le schede dei libri che leggevo.
Nel pomeriggio, invece, durante le ore più calde, rimanevo in sala, approfittando del vento che spira da quel lato della casa ed entra dalla finestra lasciata aperta, che, pur battendovi il sole, è riparata da un pino e dal glicine, sopra, che funge da tendina naturale. Guardando fuori vedevo solo piante e gli uccellini che cinguettavano felici e mi sentivo protetta e accudita. Mi sentivo un po’ meno sola.
A volte non c’era neppure bisogno di accendere il ventilatore. Poi, più tardi, tornavo in giardino, per godermi le ultime ore di sole in compagnia dei miei ragazzi e dei miei animali. E quasi sempre anche dei miei libri.
La sera camminavo, per far fare esercizio a Beba – e a me stessa. Ma erano camminate brevi, accaldate, sull’asfalto ancora bollente.
E poi, il mare. Una settimana qualsiasi di giugno abbiamo deciso di partire, ho prenotato, ed eccoci qui, per la prima volta nel Levante Ligure. Ho portato al mare il mio fastidio per il caldo, le notti insonni, la mia stanchezza. Ho portato la mia pelle bianca, due costumi e tutta la mia tristezza.
Ma lì, al mare, inaspettatamente, ho cominciato a camminare. No, non come prima. Non intendo le passeggiate stanche, quelle mezz’ore di passi lenti con addosso la voglia di tornare a sdraiarsi.
No, ho proprio cominciato a camminare. Un’ora e mezza tutte le sere, a passo sostenuto, su e giù per il delizioso paesino che ci ha ospitato. Nei carruggi e in riva al mare, sul porto e a piedi nudi sulla sabbia fredda della notte, da sola e in compagnia. Ma più spesso da sola.
Io con quella tristezza lì ci dovevo fare qualcosa o mi avrebbe distrutta. Ho pensato che potevo portarla a spasso; potevo mischiarla alle onde del mare, sperando che se ne andasse al largo. Potevo cercare di seminarla per le viuzze del centro, immaginando che mi perdesse di vista. Potevo rallegrala confondendola con le voci dei ragazzi che cantavano a squarciagola sulle sdraio, di notte. Potevo tentare di non sentire più la sua voce perché la musica delle giostre dei bambini era più forte; potevo persino fare finta che non esisteva più, mentre guardavo una vetrina piena di sandali in pelle, che non avrei comprato.
Ma poi mi ritrovavo sempre nella baia più romantica, la luna che si rifletteva su quel pezzo di mare, la statua del pescatore a guardarmi immobile, l’accento del cameriere a piedi scalzi e la barba lunga, che sembrava sceso un attimo prima da una barca a remi, come quelle ormeggiate lì accanto, il profumo di acciughe e pesto e, accidenti, mi ripiombava addosso con tutto il suo peso e dovevo stare attenta a non perdere l’equilibrio. Accidenti a lei. Tutta quella bellezza, tutta quella vita, così tanta, tutta insieme. Mi toglieva il fiato. Rimanevo attonita per interi minuti, seduta sulla sabbia, ad ascoltare voci e richiami di gabbiani, a cercare di dissolvermi in quella luce lunare e di sprofondare.
Dopo. non mi rimaneva altro se non cercare di tornare a casa, un’altra lunga camminata fino alla fine del paese, verso i prati e prendere una via nascosta, cercando di non morire di paura per tutta quell’oscurità, senza neanche una luce, tra il frinire dei grilli e le lucciole, fuori, verso la montagna, con l’aria fresca della notte sulla pelle e il desiderio che non torni mai più il giorno, ma sia sempre notte, una lunga notte infinita dove poter camminare per ore, per giorni, per sempre, portando a spasso quella tristezza infinita, cullandola, amandola pure, perché è l’unica cosa che mi rimane e che mi fa sentire ancora viva mentre tutto il resto mi crolla addosso.
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