Può un dolore essere perfetto?

Ugo Riccarelli, scrittore torinese di origini toscane, ripercorre una parte della Storia italiana, dai moti rivoluzionari di fine ottocento alla fine della seconda guerra mondiale, attraverso le vicende di una manciata di personaggi che vivono a Colle, immaginario paesino toscano arroccato in parte su di una collina e in parte in pianura, sulle rive del Padule, pozza acquitrinosa che divide il paese dal mare.

Da una parte c’è il Maestro, giovane anarchico che parte da Sapri e arriva in treno fino a quel nord che sognava di cambiare, a cominciare dal suo lavoro di maestro elementare e che una volta arrivato conosce la vedova Bartoli e se ne innamora. Dall’altra c’è Ulisse Bertorelli, stimato commerciante di maiali, che si alza tutte le mattine alle quattro e che si sceglie la moglie come sceglierebbe una scrofa. Da una parte l’amore e gli ideali, dall’altra il denaro e il sangue. Spirito e materia. I due saranno i capostipiti di due famiglie i cui destini si incroceranno quando Annina, la figlia di Ulisse, deciderà di voler sposare Nocciolino, l’ultimo figlio del maestro.

Il dolore perfetto è il fil rouge che attraversa tutto il romanzo: per diciannove volte, l’autore ci mostra che cos’è questo dolore terribile eppure perfetto, un momento in cui un suo personaggio ha un bagliore di consapevolezza, una presa di coscienza rispetto alla vita. Un attimo, spesso brevissimo, in cui è come se uscisse da sé e si guardasse dal di fuori, arrivando a comprendere il senso profondo dell’esistere. Spesso fatto di dolore, appunto – e Riccarelli non ci risparmia niente in questo senso, dalla morte in guerra a quella per la spagnola, dalla perdita di un figlio a quella del compagno amato – però perfetto, cioè compiuto, concluso, fatto nel miglior modo possibile. Ed è così che il dolore perfetto è quello del parto, è quello dell’unione carnale con un uomo che non si ama, è la compassione per il destino di dolore dei lavoratori nelle fabbriche.  È la comprensione dell’abisso che separa la propria madre dal proprio padre, è l’insieme di ansia, desiderio, urgenza che si hanno dopo sei anni d’esilio quando si sta per incontrare la donna amata. È il profondo senso di solitudine che ti avvolge come un abbraccio quando capisci che sei lontano da casa e stai per morire, è il dolore che ti strappa il respiro quando vieni a sapere dell’uccisione di tuo padre, è il sentimento che ti paralizza e ti abbaglia quando ti trovi davanti i tuoi cari che non ci sono più un attimo prima di raggiungerli.

Un‘accettazione profonda della vita, in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più dolorosi, anzi proprio maggiormente in quelli, è il messaggio più forte che l’autore ci vuole comunicare, a mio parere; i suoi personaggi, quelli positivi per lo meno, non scappano mai, non si sottraggono ad un destino che li maltratta e li percuote di continuo. Rimangono, fermi e fedeli alle loro idee, ai loro ideali, ai loro amori.  Nessuno si lamenta o prova rabbia di fronte agli eventi della propria vita. Semplicemente li accetta e si rimbocca le maniche per andare avanti come meglio può. Fa così anche l’Annina, quando rimane sola, e si sfoga solo quando il treno con il figlio Ideale parte per l’addestramento militare che poi lo porterà in Russia; solo allora trova il coraggio di urlare, a quel marito che l’ha lasciata sola da tanti anni a crescere dei figli piccoli, tutto il suo dolore e la sua rabbia, salvo poi scusarsi con l’altro figlio, Sole, quando questi viene ad abbracciarla e tenerla stretta.

Questo romanzo, meraviglioso e poetico, appartiene al genere del realismo magico e con i grandi romanzi sudamericani condivide il gusto per la contaminazione tra fantasia e realtà, tra narrazione fiabesca e descrizione realistica e cruda della vita. Tante sono le storie che paiono leggende all’interno del romanzo: la storia di Nocciolino, quella della Rosa e del medico dei balocchi, la nascita di Sole e Annina, Sole partito per l’Oriente, per ricordarne alcune. C’è sempre una ciclicità all’interno del testo: nomi che si ripetono, caratteristiche fisiche e caratteriali che si tramandano tra le generazioni,  il passato che viene continuamente richiamato e portato in vita, il futuro spesso anticipato in un gioco di rimandi che si riferisce ad una concezione circolare del tempo, dove tutto ritorna, sempre.

Quest’idea è simboleggiata dalla macchina del moto perpetuo, un meccanismo complesso che Ideale, il figlio di Annina, costruisce nel garage dello zio Ettore e a cui lavorerà tutta la vita, anche quando sarà lontano. E questa macchina complicata, fatta da tanti ingranaggi che si muovono, ciascuno grazie alla spinta di quello che lo precede e che a sua volta imprime il movimento a quello successivo, simboleggia la famiglia, il meccanismo in cui ci troviamo imbrigliati quando nasciamo. E anche se siamo soli, o vorremmo esserlo, i nostri antenati sono sempre con noi, hanno dato forma a tutto quello che c’è stato prima di noi così come noi diamo forma al presente e questo a sua volta modificherà il futuro. Non siamo soli, ci dice Riccarelli, anche quando ci sembra di si. Non stiamo sostenendo da soli tutto il peso del mondo sulle nostre spalle perché chi è venuto prima si è caricato il suo pezzetto di mondo anche lui e a suo modo ha alleggerito un pochino il nostro.

Questo mi rimanda all’ultimo tema che vorrei affrontare qui: quello della memoria. Il passato, come ho detto, ritorna continuamente nella narrazione e ritorna anche perché i personaggi del romanzo raccontano sempre le storie di chi non c’è più. Le parole hanno il potere di richiamare in vita o di mantenere ancora in vita, hanno il potere di far conoscere un padre ad un figlio che non lo ha mai visto, di mantenere intatto l’amore per un uomo, di sentire ancora l’abbraccio di una madre o le grida gioiose dei figli che ci hanno lasciato. “…che quando ci dimentichiamo allora siamo scomparsi davvero” dice ad un certo punto Annina ai suoi figli. E allora finché avremo voglia di raccontare i nostri cari non moriranno mai davvero ma saranno sempre accanto a noi. E credo che possiamo ampliare questo discorso alla Letteratura: finché avremo la forza di leggere e sottolineare, finché ci troveremo a discutere di un libro appena letto, finché riscriveremo la storia a modo nostro, allora i personaggi di un romanzo non moriranno mai ma prenderanno vita attraverso di noi, presteremo loro la voce e la nostra passione, saremo i loro occhi e le loro gambe, li porteremo in giro e li faremo conoscere.

Ugo Riccarelli non è vissuto poco: rivive in noi ogni volta che decidiamo di ascoltare la sua voce, quando decidiamo di accogliere i suoi insegnamenti, lui che conosceva il dolore da vicino e che lo aveva portato con sé durante tutta la sua vita; non se n’è fatto abbattere ma lo ha trasformato, lo ha reso un insegnamento immortale che è giunto forte e chiaro fino a noi.