Ho letto il primo romanzo di Evan Connell, pubblicato per la prima volta nel 1959, tre volte.
La prima un anno fa, consigliatomi dalla mia insegnante di scrittura – seguivo un corso intitolato ” I fondamenti del romanzo” – . La seconda in primavera, chiusa in casa durante il lock down; ho sentito l’esigenza di leggerlo con maggiore attenzione, credevo mi fosse sfuggito qualcosa. L’ultima poco tempo fa, prima di recensirlo.
Ad ogni lettura ho l’impressione di essere entrata un po’ più a fondo nell’animo della protagonista, India, giovane donna colta e indipendente, decisa a cavarsela senza un marito che però quando conosce il giovane e affascinante avvocato Walter Bridge lo sposa e si trasferisce con lui a Kansas City.
Inizia così la sua vita come Mrs. bridge, una vita da moglie, madre, padrona di casa e dama dell’alta società consumata negli anni Venti e Trenta fino al secondo conflitto mondiale, di cui sentirà i primi echi durante un viaggio in Europa con il marito.
Una vita indaffarata all’esterno ma vuota in modo inquietante se vista dall’interno e Connell ci accompagna proprio in questo viaggio alla scoperta dell’animo della protagonista, là sotto, al buio, dove neanche lei è mai stata e dove a volte avremmo voglia di guardare da un’altra parte pur di non affrontare quella solitudine e quel silenzio.
Mrs Bridge vive la sua vita trascinandosi da un’occupazione ad un’altra, trascurata dal marito, ignorata dai figli, guidata dal suo ferreo senso del dovere e dalla sua rigida educazione, senza lamentarsi mai e senza mostrare mai segni di cedimento.
Le hanno insegnato che la vita è tutta qui: essere fedele al marito e assecondarlo sempre, insegnare ai figli quello che è stato insegnato a lei – buone maniere, amabilità e igiene – fare beneficenza, dedicarsi alla mondanità con un bel sorriso. Man mano che gli anni passano, il vuoto profondo della sua anima la inghiotte sempre di più e andando avanti diventa difficile ignorarlo.
Il suicidio di un’amica che non riusciva ad adattarsi alle rigide regole sociali, il comportamento dei figli, opposto a quello che si sarebbe aspettata, la noia compagna sempre più frequente delle sue giornate: tutto le urla a gran voce che la vita non si può chiudere in una scatolina, fosse anche quella di Tiffany.
Si ferma però solo di rado ad ascoltare quella voce che le grida dentro; per lo più va avanti, un giorno dopo l’altro, tenendosi occupata in mille piccole faccende di poco conto per sentirsi utile, per poter dire di essere ancora viva.
Mrs Bridge potrebbe essere nostra nonna, nostra madre, potremmo essere noi se ci dimenticassimo della cosa più importante senza la quale la vita ha ben poco sapore: la consapevolezza.
Senza consapevolezza la vita può diventare un accumulo di giorni, di ore, di stagioni, che si susseguono una dopo l’altra lasciandosi dietro solo una scia luminosa di malinconia.
Quello che mi piace della prosa di Connell è che ogni capitolo è un’istantanea di un episodio della vita di Mrd Bridge, ritratta in un attimo particolare della sua vita: una discussione col figlio, una telefonata ad un’amica, il tentativo di essere affettuosa col marito.
E se ogni capitolo è un’istantanea, quello che abbiamo in mano altro non è se non un album fotografico, l’album privato di un’estranea dove al posto delle foto ci sono le parole che, ancor meglio delle immagini, riescono a catturare i momenti salienti di una vita ma anche i sentimenti, le intenzioni, le aspettative e tutto quello che c’è dietro ai nostri gesti e alle nostre parole.
Ecco perché amo la lettura: mi dà la possibilità di conoscere a fondo tante persone – tante quanti i libri che leggerò – con una profondità impensabile nelle vita reale.
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