Potete cominciare con “Nessuno può volare”, il romanzo che Simonetta Agnello Hornby ha scritto nel 2017 a quattro mani con l’aiuto del figlio George e poi andare a recuperare “La mia Londra”, opera del 2014 in cui l’autrice ci porta per mano attraverso i luoghi da lei amati nella sua città d’adozione.
Oppure potete seguire la cronologia e perdervi prima per le strade di Londra assieme a Simonetta, con qualche incursione nella sua vita, e poi tuffarvi a capofitto nella storia della sua famiglia e di suo figlio George in particolare. Qualunque scelta voi facciate, sono certa ne rimarrete soddisfatti.
Due libri, indissolubilmente legati
I due libri, a mio parere, sono legati l’uno all’altro in modo indissolubile. Quando Simonetta, avvocato minorile in pensione e ormai scrittrice affermata, decide di scrivere un’opera su Londra, affida parte delle ricerche a suo figlio maggiore George, avvocato della City. E anche se ne “La mia Londra” lo chiama sempre e solo “il figlio maggiore” e non dice molto altro su di lui, se ne intuisce la presenza costante. Ma quello che l’autrice ha vissuto nel periodo della stesura di questo libro, quello che ha provato e le difficoltà che ha incontrato, le possiamo scoprire solo leggendo “Nessuno può volare”, che è un’opera di segno molto diverso ma complementare alla precedente.
Il racconto della disabilita’
Qui Simonetta affronta uno dei temi più difficili – secondo me – in assoluto: quello della disabilità. E lo fa con la sua consueta schiettezza e sincerità, senza nascondersi dietro a nulla ma raccontando di sé e della sua famiglia.
Incontriamo infatti, fin dalle prime pagine, Ninì, la cugina sordomuta, zia Rosina, affetta da un ritardo mentale, zia Teresa, che negli ultimi anni della sua vita sparì in un mondo tutto suo e persino il padre di Simonetta, sofferente per una forma di osteomielite.
Nel mondo di Simonetta tutti i disabili, seppur diversi, facevano parte della normalità della sua famiglia ed erano accolti e rispettati e mai emarginati. Inizia poi la seconda parte del libro, scritta in una felice alternanza con George, figlio inglese di mamma siciliana, dove si parla di identità culturale, viaggi ma soprattutto della malattia – la sclerosi multipla – che lo ha colpito dopo i trent’anni, quando era un brillante avvocate padre di due bambini. Non deve essere certo semplice raccontare la malattia di un figlio, ripercorrerne le tappe, dalle prime avvisaglie alla diagnosi definitiva e impietosa: sclerosi multipla primaria e progressiva senza possibilità di cura.
Dopo lo shock iniziale
“(…) Pian piano accettavo l’enormità di quello che era successo: un’orribile malattia in famiglia. Ma era anche una sfida. Come noi non possiamo volare, così George non avrebbe più potuto camminare: questo non gli avrebbe impedito di godersi la vita in altri modi. Mio padre era stato un formidabile esempio. Nella vita c’è di più del volare, e forse anche del camminare. Lo avremmo trovato, quel di più.”
Una felice alternanza di voci
Ai racconti della madre e al sua cammino verso l’accettazione della malattia attraverso sensi di colpa, desideri impossibili e lo studio della disabilità nel passato e nella storia dell’arte, fa da controcanto l’ironia schietta di George, che ci porta nella sua nuova realtà fatta di limiti da accettare, pregiudizi ma anche diversi e nuovi punti di vista.
Ho amato questo libro perché è riuscito a portarmi dentro alla realtà dei disabili con delicatezza e positività, senza sminuirla ma cercando – quando possibile – un punto di vista diverso, una leggerezza che non è sempre scontato trovare.
Se lo desiderate, qui trovate “La mia Londra” . Qui invece “Nessuno può volare.
Raffaella
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