Il rogito era fissato per il dieci febbraio.

Una versione di me tremante e dubbiosa si è presentata quel giorno all’appuntamento delle cinque.

Era l’ultimo gradino, il peggio era alla spalle, però per me ancora no. I dubbi non mi avevano abbandonata, neanche per un istante.

Quel giorno cercavo un segno, una conferma, qualcuno che mi dicesse che andava tutto bene e che avevo fatto la scelta giusta; era assurdo cercare conferma in quel luogo, quel giorno.

Eppure – come tanta altre volte in questa storia – è proprio quello che accade.

I proprietari della casa nel bosco erano due persone straordinarie, empatiche, aperte. Ci siamo guardati e ci siamo subito riconosciuti. Quello che poteva essere un noioso atto notarile è diventata una piacevole chiacchierata amichevole  che è continuata nel bar sottostante.

Capita di rado di trovarsi così bene, dopo pochi minuti, con degli sconosciuti: mi è capitato pochissime altre volte, con quelle che poi sono diventate delle care amiche.

Ma l’aspetto più incredibile, quello che mi ha resa grata nel profondo e ha allontanato tutti i miei dubbi, è che S., la figlia dei primi proprietari, guardandomi entrare mi ha detto che le ricordavo la sua mamma, che amava dipingere e curare il giardino. Lei era felice di vendere a noi l’amata casa dei suoi genitori e noi non saremmo potuti essere più felici di comprarla.

Il resto di febbraio è trascorso velocemente tra sopralluoghi e i miei goffi tentativi di prendere confidenza con il giardino. Avevamo fissato l’inizio dei lavori per i primi di marzo.

L’inizio del lock down. Che a pensarci ora mi viene un po’ da ridere.

Perché la vita a volte è bastarda e si diverte a prenderti in giro. Tre mesi di blocco totale prima di rivedere la luce all’inizio di un giugno gelido, dove tutti gli artigiani avevano mesi di lavoro arretrato da recuperare; dove pioveva sempre e i muri, anneriti dall’allagamento dell’anno precedente, faticavano ad asciugare. Dove avevo fatto di tutto – e mi ero messa contro tutti – pur di non trascorrere un’altra estate nella casa vicino al treno. E invece proprio lì l’avevo trascorsa, sul divano, attaccata al ventilatore, anzi ancora peggio perché quest’anno non siamo neppure andati in vacanza.

Ma la vita è anche un fiume in piena e la sa sempre più lunga di te.

Tutti quei mesi chiusa in casa hanno spazzato via le mie indecisioni, mi hanno liberata dalle ultime catene che mi ancoravano al giudizio altrui. Ho compreso con chiarezza le mie priorità, gli aspetti per me irrinunciabili e li ho separati da tutto il resto, di cui invece ho deciso di fare a meno.

Se non ci fosse stato questo blocco, avrei arredato la casa seguendo i consigli che ora tutti avevano voglia di darmi. Ho compreso invece, proprio perché la casa è lo specchio della nostra interiorità, che nessuno meglio di noi può sapere di quali colori circondarsi, di quali materiali lasciarsi avvolgere, su cosa desidera posare lo sguardo ogni giorno.

E’ nata così la porta arancione, anzi color zucca: ho voluto mantenere la porta originale, con i vetri riquadrati all’inglese, ma poiché era rovinata è stata piallata e riverniciata. Per ovviare poi al fatto che non fosse blindata, la abbiamo protetta con un cancello in ferro battuto. Ho scelto un colore carico d’energia, che richiama l’autunno,  la mia stagione preferita, in una versione pastello che illumina l’ingresso e mette di buon umore. E io amo scendere le scale al mattino e dare un primo saluto al giardino che si sveglia.

E’ questo che intendo per “restauro conservativo”: tutto quello che si poteva salvare abbiamo cercato di riportarlo in vita, perché ho amato da subito tutto quello che apparteneva a questa casa, dagli infissi in legno agli specchi sparsi  qui e là e non avrei mai voluto cambiare nulla. Tutto sembrava avere una storia da raccontare, una storia fatta d’amore e di cura per il dettaglio e tanta bellezza la sto scoprendo solo ora, che ci vivo da più di un mese.

Ora posso dire che, in quell’ottobre di circa un anno fa, ho avuto un’intuizione, un’illuminazione forse, si è squarciato per un attimo il velo della realtà  e ho potuto guardarci attraverso; sono certa di essere stata guidata da una forza superiore che, se non mi avesse aiutata e sostenuta, ora non mi troverei qui.

Una volta trasferiti mi sono apparsi chiari davanti agli occhi i motivi del mio disagio nella casa precedente: per prima cosa il rumore, ad intervalli regolari, del treno. All’inizio non mi era sembrato un problema, anzi, mi faceva compagnia. Poi, dopo l’Expo, i treni sono aumentati, il primo della mattina era alle 5,30 e l’ultimo alle 22,30; questo è quello che mi dava più fastidio, perché la sera mi faceva sobbalzare e lo vivevo come un’intrusione violenta alla mia intimità.

La Casa vicino al treno era poi una casa circondata ovunque da altre case e, da qualsiasi finestra mi affacciassi, avevo davanti un’altra finestra, più o meno lontana, o un balcone o un giardinetto privato e capitava spesso che ci guardassimo involontariamente tra vicini. Questo sempre, su ogni lato della casa. Per una solitaria come me a lungo andare è diventato un problema e mi sono accorta che mi ero abituata a vivere “in vetrina”. Infatti quando non stavo bene o non avevo voglia di parlare non uscivo nemmeno in giardino perché ero certa di essere osservata o chiamata. I miei figli – ma questo l’ho capito dopo – evitavano di sedersi fuori perché si sentivano controllati tutto il tempo.

Una zona poi che detestavo appassionatamente, e me ne accorgo ora, era la taverna. Era un luogo freddo ( perché non riscaldato), buio ( aveva solo delle ” bocche di lupo”), polveroso ( perché non avevo mai voglia di pulirla) che all’inizio avevo cercato di sistemare ma che puntualmente, dopo ogni mia pulizia profonda, veniva riempito di mobili vecchi, libri non più usati, giocattoli rotti. Avevo un camino ( mai acceso), un forno a legna ( mai usato) e una cucina in muratura ( ma perché, se al piano sopra c’era la mia amata cucina inglese color panna?), un bagno/lavanderia ( devo dire comodo ma con un’inquietante tenda verde che lo separava da una zona ripostiglio) e un locale cantina freddo d’inverno e asfissiante d’estate ( perché senza ricambio d’aria).

Odiavo dover scendere di un piano per recuperare i panni dalla lavatrice e risalire per stendere, odiavo dover andare giù ogni volta che mi serviva qualcosa dalla dispensa. Ora ho capito perché.  Se la casa, come ho scritto più volte, è lo specchio della nostra interiorità, non volevo più avere una parte buia, sporca, non areata e nascosta. Volevo che tutto fosse alla luce del sole, brillante e lucido. Volevo entrare in casa dalla porta principale, ascoltarne il respiro, sentire le voci di chi già c’era.

E ora posso farlo. Posso varcare la porta arancione, fermarmi un attimo a respirare il giardino e poi scendere per la scalinata in pietra fino alla strada e posso tornare, ogni volta, risalendo la lunga scalinata sinuosa che dalla strada si inerpica fino alla Casa, attraversare il portico, aprire il cancelletto in ferro battuto e poi la porta, voltandomi però sempre un attimo a dare un  veloce saluto allo scoiattolo in pietra  e alla panchina blu che lo sorveglia.